Lo Spettacolo 2.0

Se c'è un autore che ha compreso fino in fondo il suo tempo e che ha intuito e predetto lo sviluppo della società odierna in modo quasi profetico, questo è il filosofo francese Guy Debord. Teorico marxista, evento centrale nella biografia dell'autore è la fondazione, nel 1957, dell'Internazionale Situazionista che univa una serie di movimenti di avanguardia artistica europei allo scopo di criticare e combattere i principi della società capitalistica e dell'industria culturale. Il suo saggio "La società dello spettacolo" è stato pubblicato nel 1967, ma è ancora assolutamente attuale, oltre che utile, per interpretare la realtà che stiamo vivendo. La tesi fondamentale di Debord è che viviamo in una società che è ormai permeata ad ogni livello dallo spettacolo, inteso non come un insieme di immagini, ma come «un rapporto sociale tra persone, mediato dalle immagini». Si parla di media, quindi, ma questi non sono i protagonisti specifici della sua critica; egli infatti intende lo spettacolo come la fase finale del capitalismo, ossia come «il capitale a un tal grado di accumulazione da divenire immagine» e come la trasformazione del lavoratore operaio in consumatore. Secondo Debord è possibile riscontrare due fasi nello sviluppo dell'economia capitalistica: una in cui si è realizzato il primato dell'avere sull'essere, e quella attuale, in cui l'avere viene soppiantato dall'apparire. La società dello spettacolo è una società dell'apparenza, dell'irrealismo, della non-vita.

Il protagonista dello spettacolo è la vedette, colui o colei che assume su di sé tutti gli sguardi, la cui condizione è descritta come «la specializzazione del vissuto apparente, l'oggetto di identificazione alla vita apparente senza profondità». Con grande capacità predittiva, e riferendosi soprattutto alla vedette del consumo, Debord ha delineato i caratteri di alcune celebrità ed influencer odierni il cui lavoro è mostrare giornalmente sui social una realtà inaccessibile al proprio pubblico ed anche a sé stessi. La vita così rappresentata è non vissuta, nel senso che ciò che viene immortalato dall'immagine e dal video è irreale; studiata e preparata a tavolino, si potrebbe dire che essa è piuttosto una performance della vita. È inoltre senza profondità in quanto non arriva quasi mai a sporcarsi con i problemi reali, concreti che il suo pubblico affronta giornalmente; parlarne equivarrebbe a riconoscerli, ad ammettere un qualche contatto con la realtà, e ciò rovinerebbe l'aura di perfezione da cui sono pervasi. Per ottenere l'approvazione e lo sguardo di tutti la vedette deve mostrare di aver accesso alla totalità del consumo: la sua vita deve incarnare un ideale di completezza a cui ognuno deve aspirare; deve essere priva di mancanze ma piena di nuovi bisogni.

In questo senso la vedette si pone al servizio del settore della merce. Debord scrive negli anni '60, anni in cui paesi come Francia e Italia vivono il boom economico e in cui la merce rende manifesta la sua logica legata ad uno sviluppo di tipo quantitativo piuttosto che qualitativo, al punto di arrivare ad occupare la totalità della vita sociale («Il mondo che si vede è il mondo della merce»). La questione della sopravvivenza è risolta: l'abbondanza che il sistema capitalisitico rigetta sul mercato è capace di appagare i bisogni primari dei più. Seguendo la logica sottesa al suo stesso sviluppo, tuttavia, non può e non deve risolvere definitivamente il problema, in quanto l'assioma della crescita infinita necessita della creazione di nuovi bisogni da soddisfare; quindi al suo interno deve contenere la privazione. Vengono così concepiti gli pseudo bisogni e si realizza la condizione che Debord definisce "sopravvivenza aumentata", ossia la situazione per cui la maggioranza della popolazione gode del pieno soddisfacimento dei bisogni necessari, eppure la percezione comune è quella di vivere una vita di perenne e incontentabile mancanza.

Il tempo nella condizione di sopravvivenza aumentata assume il carattere spettacolare e diventa tempo-merce, ossia tempo a cui viene sottratto ogni valore intrinseco e che acquisisce importanza solo in virtù della sua scambiabilità. Con che cosa scambiamo il nostro tempo? Con il lavoro, sostanzialmente, ma anche con il consumo. Si lavora per 8 ore al giorno e il tempo libero è da dedicare a sé stessi, almeno così dicono; in realtà è tempo da impiegare nel mercato. Debord definisce "umanesimo della merce" il suo prendersi cura del divertimento e degli svaghi del lavoratore al termine della giornata. E questo la società dello spettacolo lo fa egregiamente: organizza e vende dei blocchi di tempo inducendoci a credere che solo la vita del consumatore (nel suo apice la vita in vacanza) sia degna di essere vissuta. La vacanza è un'invenzione capitalistica, che ha il chiaro fine di rappresentare ed incarnare l'irrinunciabile, agognato intervallo di normalità in una vita lavorativa alienata. In quanto tale, dovrebbe racchiudere in sé tutto il soddisfacimento necessario per affrontare il successivo anno di lavoro.

Lo spettacolo, ed in particolar modo i social media quali Instagram, hanno fatto del consumo una questione di primaria importanza. Non soltanto perchè sono centrati sulle immagini, la cui universalità e immediatezza le rendono il veicolo privilegiato della merce; ma anche in virtù del funzionamento e delle logiche interne di tali applicazioni. L'obiettivo è quello di mantenere l'utente quanto più possibile collegato ed incollato allo schermo, con il duplice fine di mostrare contenuti pubblicitari in quantità e acquisire dati. L'infinita disponibilità di nuovi contenuti da consumare, selezionati sulla base delle nostre preferenze, alimenta lo scrolling compulsivo, e ciò garantisce alla merce di essere permanentemente in vetrina. La valorizzazione della quantità incentiva il consumo veloce e superficiale, e tale tendenza ha ormai invaso ogni ambito, passione ed hobby, anche quelli che per loro natura si discostano maggiormente da questa logica, come la lettura. Si compra per mostrare. Il contenuto e la qualità cedono spesso il posto alla quantità, alla forma e all'involucro esterno in funzione dell'estetica della foto. L'approfondimento, la riflessione e la discussione vengono sacrificate a favore della sterile ma ben curata esposizione, e ciò avviene perchè i social media, e più in generale lo spettacolo, premiano ed incentivano questo tipo di contenuti.

La società dello spettacolo è riuscita ad inglobare anche il discorso politico, quello sui diritti civili, sulla parità di genere e sull'ambiente, facendo sì che esso resti ancorato ad un livello superficiale. Ad esempio c'è chi ha sostenuto che l'elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti d'America nel 2016 rappresenti l'apice della politica dello spettacolo così come l'aveva descritta Debord. Egli ha infatti saputo gestire al meglio la propria campagna elettorale, ponendosi costantemente al centro dell'attenzione mediatica ed utilizzando i social media per creare e consolidare consenso. La distinzione tra intrattenimento, spettacolo e politica viene meno, abbassando quest'ultima al livello di tweet beceri e ingoranti. L'utilizzo dei social da parte dei politici è unidirezionale, nel senso che non prevede dibattito, discussione o risposta ai commenti degli utenti; garantisce però un canale di comunicazione diretta, veloce ed immediata, che permette di fidelizzare efficacemente il proprio pubblico. Questa possibilità è data soprattutto dalla tendenza dei social a proporre contenuti simili a quelli apprezzati in passato, ossia di personalizzare la home page per fare in modo che l'utente rimanga online più tempo possibile; questo fa sì che i social si trasformino in una sorta di cassa di risonanza, penalizzando il confronto con realtà ed idee differenti. In tal senso attirare attenzione e like sui propri contenuti è una mossa strategica per ottenere ulteriore visibilità, e quindi essere maggiormente competitivi in una politica in cui l'immagine acquisisce sempre più importanza.

Dal 1967, anno in cui scriveva Debord, ad oggi la società dello spettacolo si è consolidata, è mutata nella forma ma ha mantenuto la sua presa. Tuttavia ha reso ancor più palesi le sue contraddizioni intrinseche, e l'incapacità del sistema capitalistico di mantenere le promesse fatte:

La contraddizione essenziale del dominio spettacolare in crisi è che esso ha fallito nel punto in cui era il più forte, in certe piatte soddisfazioni materiali che escludevano ben altre soddisfazioni, ma che si presumevano sufficienti per ottenere l'adesione reiterata delle masse di produttori-consumatori. Ed è precisamente questa soddisfazione materiale che esso ha inquinato e ha cessato di fornire. La società dello spettacolo era cominciata ovunque nella costrizione, nell'inganno, nel sangue; ma essa prometteva un seguito felice. Credeva di essere amata. Ora non promette più nulla. Essa ha perduto tutte le illusioni generali su se stessa.