Il Realismo Capitalista

Se a partire da quella turbolenta fase della crescita che è la tarda adolescenza hai iniziato ad avvertire la sempre più frustrante sensazione, che alcuni etichettano come infantile, di non avere molte alternative a disposizione nella vita, di non sapere cosa fare del tuo futuro e di essere in una sorta di labirinto per topi in cui non c'è alcuna via d'uscita ma solo una ricompensa che rincorrerai freneticamente, sappi che non sei solo e che ciò è assolutamente normale. Qualcuno potrebbe ribattere che ci sono state epoche ben peggiori, e che ancora oggi a seconda di dove nasci e da quale famiglia provieni, le opzioni praticabili calano tristemente a picco. Ed è vero. Quello che però vorrei sottolineare è l'ipocrisia e la contraddizione di un sistema che ti illude di avere possibilità pressoché infinite, ti assicura che il futuro è nelle tue mani e che puoi plasmarlo a tuo piacimento, ma poi fornisce gli strumenti e le opportunità migliori solo a pochi individui fortunati, lasciando gli altri a sguazzare in un mare di ansia e autocolpevolizzazione.

Da una parte gli slogan onnipresenti ci bombardano con la retorica del "sii diverso dagli altri, sii la versione migliore di te stesso", chiedendoci di emergere dalla massa indistinta di consumatori senza cervello, di fare del dono prezioso che è la nostra vita un'esperienza grandiosa, unica e colma di piacere; dall'altra i mezzi che offrono e che abbiamo a disposizione sono limitati e le difficoltà continue. La felicità che hanno impacchettato e che ci prefigurano, fatta per lo più di ricchezza, accumulazione del superfluo ed invidia altrui, è difficilmente raggiungibile se non a costo di impegno e sacrifici che spesso durano tutta una vita, e che a volte neppure bastano senza l'intervento di una buona dose di fortuna. Eppure viene sventolata davanti ai nostri occhi di continuo, come se bastasse allungare la mano per afferrarla; è comprensibile che chi non riesca nell'impresa senta quasi il peso di una colpa esistenziale. Allo stesso tempo sappiamo che quella non può essere chiamata felicità, ma piuttosto comodità, e che forse varrebbe la pena impegnare la propria esistenza alla ricerca di qualcosa di diverso; eppure presto ci dimentichiamo di queste coraggiose ambizioni, una sensazione di impotenza, di incapacità di pensare il futuro in termini differenti ci attanaglia e finiamo per incamminarci per la strada già battuta.

Proprio tale percezione di esaurimento del futuro è uno degli effetti di quello che Mark Fisher ha definito realismo capitalista, ossia «la sensazione diffusa che non solo il capitalismo sia l'unico sistema politico ed economico oggi percorribile, ma che sia impossibile anche solo immaginarne un'alternativa coerente». Scrittore, critico musicale, filosofo e fondatore del blog k-punk, nel libro del 2009 "Realismo capitalista" Fisher riflette su come tale sensazione abbia permeato praticamente ogni aspetto della nostra vita, dalla produzione culturale all'educazione scolastica, dal pensiero economico-politico all'immaginazione stessa, fino ad essere introiettata nell'inconscio collettivo.

Dopo la dissoluzione dell'Unione Sovietica nel 1991 fino ai nostri giorni, infatti, il neoliberismo si è definitivamente imposto come unica opzione economica e politica, complice anche l'incapacità delle sinistre di pensare ed elaborare delle alternative praticabili: libero mercato, capitalismo e globalizzazione sarebbero le uniche vie da percorrere, capaci da sole di generare benessere tra la popolazione. Lo slogan utilizzato dalla conservatrice Margaret Thatcher "There is no alternative" suggeriva proprio questo: travestire delle decisioni politiche da disposizioni tecniche prescritte da economisti competenti equivaleva a sostenere che quelle erano le uniche decisioni razionali da prendere; le alternative, se non supportate da tale competenza tecnica, non dovevano neppure essere prese in considerazione. Secondo Fisher, la crisi finanziaria del 2008 ha rappresentato al meglio l'essenza del realismo capitalista: gli Stati, relegati dal pensiero neoliberista ai margini del mercato, dovettero intervenire finanziariamente per salvare le banche dal collasso, mostrando a tutti che il fallimento del sistema bancario non era nemmeno un'eventualità da prendere in considerazione.

La forza maggiore del capitalismo consisterebbe nella capacità di rendere sterile ogni ideale o credenza, andando così ad incarnare la condizione postmoderna così come l'aveva definita Lyotard, ossia come «l'incredulità nei confronti delle metanarrazioni». L'epoca delle grandi ideologie è terminata; ogni tipo di narrazione viene adesso convertita in oggetti estetici, in artefatti spogliati di ogni contesto e funzione, e resa così inoffensiva. Scrive Fisher: «Il capitalismo è quel che resta quando ogni ideale è collassato allo stato di elaborazione simbolica o rituale. Il risultato è un consumatore-spettatore che arranca tra ruderi e rovine». A prevalere e ad essere incentivato è un atteggiamento di distacco ironico verso ogni cosa, soprattutto verso il capitalismo stesso; tale disposizione d'animo ci solleva almeno in parte dalla consapevolezza che, per quanto malvagio e ripugnante sia, anche noi continuiamo a far parte e ad alimentare il sistema.

Questa distinzione tra un atteggiamento soggettivo che prende le distanze e il comportamento esteriore che si riflette nella vita quotidiana, tende a pacificare ogni moto di ribellione e di rabbia, e la mancanza di alternative percorribili fornisce un'ulteriore scusa per eludere ogni partecipazione attiva. Oggi gran parte dell'insoddisfazione si riversa in post indignati sui social, e pare che ricevere molti like esaurisca ogni tipo di malcontento e ti faccia sentire come una sorta di attivista in missione di pace. Questo meccanismo è così efficace che lo stesso realismo capitalista prevede una certa dose di anticapitalismo al suo interno: Fisher cita l'esempio di quella serie infinita di film prodotti da Hollywood in cui il cattivo contro cui scagliarsi è una multinazionale senza scrupoli; o il film d'animazione ambientalista ed anticonsumistico Wall-E. Egli scrive: «il film inscena il nostro anticapitalismo per noi stessi, dandoci al contempo la possibilità di continuare a consumare impunemente. [...] Senza propaganda, fascismo e stalinismo sono impossibili da concepire: ma il capitalismo funziona altrettanto bene, se non addirittura meglio, anche quando nessuno si prende il disturbo di perorarne la causa».

Le spinte anticapitaliste non creano particolari problemi al sistema, anche perchè esso non si presenta affatto come privo di difetti; la pretesa del capitalismo, quella con cui si autogiustifica, è piuttosto quella di costituire il modello economico maggiormente compatibile con la natura umana e con il suo innato desiderio di accumulazione. Tralasciando la difficoltà nel determinare, nel XXI secolo, quali impulsi siano naturalmente inerenti all'essere umano e quali siano invece un sottoprodotto della società, secondo Fisher l'unico modo per intaccare il realismo capitalista è proprio mostrare che in verità esso non è per niente realistico. L'idea che ogni attività e ogni aspetto della vita umana debba essere gestito allo stesso modo con cui viene gestita un'azienda, l'idea che la massimizzazione del profitto e la continua espansione del mercato siano le uniche vie che l'umanità può percorrere è del tutto irrealistica. Bisogna puntare su tutto ciò che tali idee bruciano e devastano, più o meno lentamente: Fisher parla di crisi ambientale e disturbi mentali, due problematiche sempre più consistenti, a cui viene rinnegata la matrice sistemica, relegati rispettivamente all'ambito dell'etica personale e all'origine neuropsicologica.

Mai come nell'occidente postmoderno la ricerca della felicità personale ha goduto di così buona fortuna. Se in altri momenti storici si richiedeva abbastanza facilmente il suo sacrificio nel nome di qualche ideale o di uno stato di necessità, oggi tale richiesta verrebbe trattata alla stregua di un delitto. In effetti il perseguimento della felicità è annoverato tra i diritti inalienabili dell'essere umano, insieme alla vita e alla libertà, già nel 1776 dalla Dichiarazione d'indipendenza degli Stati Uniti. Ma non penso che per felicità intendessero quell'inerzia edonistica, come la definisce Fisher, che oggi sogniamo con tanto ardore dopo una lunga giornata di studio o di lavoro: «uno stato di soffice narcosi, il confortevole oblio della Playstation, le maratone notturne davanti alla televisione». E sicuramente non intendevano la foga consumistica che ci rende semplicemente schiavi di bisogni neanche lontanamente primari. Se il perseguimento della felicità è un diritto, e se per felicità intendiamo la realizzazione di ciò che per noi è importante, perchè percepiamo sempre quel traguardo così lontano? Siamo noi che non sappiamo accontentarci o, forse, il motivo è che avvertiamo sempre un salto tra ciò che dovremmo volere e ciò che vogliamo davvero?